Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psicoanalisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psicoanalisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.
1904-1926 La narrativa 1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello 1912, Il mio Carso di S. Slataper 1913, Canne al vento di G. Deledda; Un uomo finito di G. Papini [I vecchi e i giovani di L. Pirandello] 1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier 1920, Pesci rossi di O. Cecchi 1921 Il podere di F. Tozzi 1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo 1926, Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello
G. Contini, Introduzione a C.E. Gadda, La cognizione del dolore, 1963 Verga gestisce i suoi esperimenti in vitro con ineccepibile obbiettività positivistica, un’obbiettività talmente geniale da farsi prendere (oggi) per carità. Ma partecipazione e corresponsabilità bisogna cercarle all’altezza del neoverismo, o piuttosto di Pavese; che nell’invenzione narrativa gioca qualcosa di assai vicino alla salute della sua anima. […] E’ ovvio destino degli iniziatori che il loro impulso, coniugato a moventi allotri, si specializzi secondo finalità non coincidenti con le loro. […] Come il primo, così il secondo verismo ebbe rapidamente i suoi illustratori paesano, d’una qualità che anche per i tempi moderni si vorrebbe sempre comparabile alla sostenutezza benpensante dei Fogazzaro, dei De Marchi, delle Deledda.
Grazia Deledda, Canne al vento, 1913 Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giú in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca collina dei Colombi. Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava piú suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo. Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall'altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.
Federigo Tozzi: una vita ‘esemplare’ 1883, nasce a Siena, ultimo di otto figli e unico a sopravvivere, da una coppia di contadini trasferitisi in città. Il padre, violento volgare e autoritario, gestisce una trattoria; la madre, malata di epilessia, muore nel 1895 Espulso dal Seminario Arcivescovile e dall’Istituto di Belle Arti per cattiva condotta, studia alle scuole tecniche
1901, si iscrive al Partito socialista; inizia l’inquieta relazione con la contadina Isola, che nel 1902 lascia per Emma 1904, una malattia infettiva agli occhi lo costringe a rimanere al buio per mesi 1908, viene assunto dalle Ferrovie dello Stato, come impiegato alla stazione di Pontedera; muore il padre; sposa Emma e si stabilisce nel podere di famiglia dove si dedica alla lettura e alla scrittura 1914, si trasferisce a Roma 1917, pubblica la raccolta di prose Bestie 1918, scrive di getto Il podere e tre croci 1920, muore a Roma di polmonite
Federigo Tozzi, Il podere, 1921 Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva venti anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. Invece credeva che stesse meglio; senza sospettare che, se non gliene facevano sapere niente, volevano tenerlo lontano da casa più che fosse possibile. Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più da sperare. La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto che era per passare. Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo vedesse. Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci accesi. Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese:
Do'stlaringiz bilan baham: |