Comune: Clavesana Provincia
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Schede storico-territoriali dei comuni del Piemonte Comune di Clavesana Cesare Morandini 1996
Comune: Clavesana Provincia: Cuneo. Area storica: Monregalese. Abitanti: 941 (ISTAT 1991); 901 (SITA 1996). Estensione: 17,15 kmq (ISTAT 1991, SITA 1996). Frazioni: centri abitati: Clavesana, Ghigliani, Lo Sbaranzo, Madonna della Neve, Madonna delle Surie; nuclei: Chiecchi Soprani, Chiecchi Sottani, Cravili Superiori, Gerino, I Ferrua, I Gai, I Tetti, La Possa-Gramoretti, Palazzetto, San Bartolomeo (ISTAT 1991).
Cigliè, Cigliè e Bastia Mondovì, a ovest Carrù. Toponimo storico: nel 1142 «Cravexana», nel 1251 «Cravesana», nel 1275 «Cravexanna» (Dizionario di toponomastica 1990, p. 252). Si potrebbe trattare di un prediale ottenuto con il suffisso –anus applicato al nome romano Clavidius o Clavesius, come suggerirebbe la consuetudine locale di volgere a cr l’originario cl. Tuttavia è possibile che la forma originaria fosse Cr modificata successivamnete in Cl per ipercorrezione (Dizionario di toponomastica 1990, p. 252). Diocesi: nei confini della diocesi di Alba nel medioevo (Conterno 1986, p. 115), Clavesana passerà alla diocesi di Mondovì nel 1817.
compare nel medioevo né come sede di circoscrizione plebana, e nemmeno come chiesa dipendente da altra circoscrizione; nel Registrum delle Costituzioni Isnardi del 1325 (Conterno 1986, p. 115) che elenca le chiese della diocesi di Alba è presente solo una chiesa esente da plebatus, la «ecclesia Galini in finibus Cravesane», localizzata da Conterno come la cappella, ora scomparsa, di Santa Maria in regione Garino, al confine con Farigliano (Conterno 1986).
Garino, esente da plebatus (Conterno 1986, p. 115). Comunità, origine, funzionamento: nella marca arduinica formata da Ottone III nel 1001 e confermata da Corrado II nel 1026; alla morte di Bonifacio del Vasto del 1134 Clavesana diviene la sede del marchesato omonimo (Morozzo della Rocca 1894, I, p. 264). Il primo atto della comunità conservato è il catasto del 1564 (AC Clavesana, Catasto che correva al tempo del primo consegnamento de beni feudali fatto dalli ill.mi marchesi di Clavesana cioè sig. Niccolò per la metà del feudo et il sig. Massimiliano per il quarto et li ill.mi sig. Henrico e Bongiovanni per l’altro quasrto tutti essi signori di Saluzzo). Dipendenza nel Medioevo: nella marca arduinica formata da Ottone III nel 1001 e confermata da Corrado II nel 1026; poi tra i possedimenti di Bonifacio del Vasto, aleramico, alla morte della zia Adelaide, ultima discendente di Arduino. Alla morte di Bonifacio (1134) Clavesana viene eretta a sede di marchesato, che tocca al figlio terzogenito di Bonifacio, Ugone (Morozzo della Rocca 1894, I, p. 264). Tra i marchesati aleramici quello di Ceva appare ancora unito a quelli di Albenga e Clavesana nel 1170 (Morozzo della Rocca 1894, II, p. 312), mentre nel 1174 Ceva è tenuta da Guglielmo I, e Albenga e Clavesana da Bonifacio I; nel 1266 anche questi ultimi due marchesati cadono sotto due diversi signori. Nel 1382 è tra i possedimenti del marchesato di Saluzzo, e i marchesi giurano già fedeltà ai Savoia; Clavesana
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passa al ducato di Savoia per donazione di Carlo V nel 1532, in quanto facente parte del ducato di Asti ceduto dalla Francia all’Impero con il trattato di Cambrai (Pio 1920, pp. 11-12).
di Bonifacio del Vasto, Ugone (Morozzo della Rocca 1894, I, p. 264). Nella giurisdizione del marchesato anche i castelli di Farigliano e Murazzano: alla morte di Ugone, però, che muore senza figli, Farigliano e Murazzano passano al marchesato di Saluzzo, a capo di cui v’era il fratello maggiore di Ugone, Manfredo I (Viotto 1960, pp. 32-33). Nel 1326 il feudo appartiene ancora ai marchesi di Clavesana, (AST, Corte, Provincia di Mondovì, mazzo 13: Franchiggia accordata dal marchese Federico di Clavesana alli sudditi del conte Guglielmo di Ventimiglia); il 22 aprile 1328 termina però una guerra di successione per il possesso di Clavesana tra la casata dei marchesi di Ceva e i del Carretto, vinta dai Ceva (Morozzo della Rocca 1894, III, p. 49); nel 1382 è passato ai marchesi di Saluzzo nel ramo dei Saluzzo- Dogliani, e nel 1382 i marchesi giurano già fedeltà ai Savoia (AST, Corte, Provincia di Mondovì, mazzo 13: Ricognizione, ed investitura concessa dal conte Amedeo di Savoia a
Savoia per donazione di Carlo V nel 1532. La signoria dei Saluzzo-Dogliani, anche se con titoli ormai solamente onorifici e venali, continua fino al 1597, anno della morte dell’ultimo discendente maschio, Corrado, e prosegue poi per linee femminili per tutto il Seicento e buona parte del Settecento. La contestazione dei diritti di successione porta nella seconda metà del Settecento ad una vertenza, per cui vengono infeudati di porzioni di Clavesana esponenti di altre famiglie, e nel 1780 viene riunita al Regio Patrimonio l’ultima parte rimasta all’ultimo discendente dei Saluzzo-Dogliani. Parti del feudo spettano, a partire dall’ultimo trentennio del Settecento, agli Ascheri, ai Vegnaben, ai Corvo, Agli Asinari di Bernezzo, ai Bava e a i Musso di Fossano, ai Della Valle, a Remigio Alvernia.
a quella di Cuneo
:
Comunanze: beni antichi della comunità attestati a inizio Seicento lungo il Tanaro al confine con Farigliano (Rive di Giordano, del Finsangue, regione Prata, regione Gere) e in altre regioni (gerbidi e boschi: Coste sopra il Toma, Toma, S. Antonio, regione Colle, Crilletta); beni avuti per donazione dei marchesi di Clavesana (gerbido del mulino); beni attestati nel Settecento come ricevuti dalla comunità per abbandono da parte dei proprietari, per erosione fluviale (rocce e ghiaioni lungo il Tanaro). Luoghi scomparsi: nessuna notizia.
AC Clavesana (Archivio Storico del Comune di Clavesana, non ordinato):
1596); Schede storico-territoriali dei comuni del Piemonte Comune di Clavesana Cesare Morandini 1996
Atti della Comunità e uomini di Clavesana contro il sig. Bongiovanni Saluzzo signore di detto luogo; idem contro il sig. Ciro di Saluzzo signore di detto luogo (14 agosto
1596); Propalazioni della comunità di Clavesana (1597 );
f. 217: Matricola tributi ( 1628
); Comunità di Clavesana, Catasto, Libro dei trasporti;
Libro dei trasporti (1692);
Atti di incanti, deliberazioni, et instrumento di vendita di tenimento di beni della Comunità di Clavesana a favor del sig. Giuseppe Durandi con fede di nuova misura, et ordinato di d.ta Com. tà per ricorrer con attestati uniti (1748);
Ordinati. AC Farigliano (Archivio Storico del Comune di Farigliano), fald. 165, fasc. 20 bis: Atti civili contro il marchese di Clavesana per la chiusura della bealera di Aviant e per i gorreti di Finazzo e Prà (1674). AST (Archivio di Stato di Torino):
Camera dei Conti, art. 616 e 619 (sentenze camerali, declaratorie); Camera dei Conti, II Archiviazione, art. 21, m. 90, f. 21: Perequazione del Piemonte, Mondovì, consegna beni immuni e comuni;
Corte, Paesi per A e B, m. 62, n. 10, c. 1: Il Conte Annibale Caramelli implora un annuo trattenimento in compenso della privazione di parte del feudo di Clavesana posseduto dai suoi antenati (29 febbraio 1831).
Corte, Provincia di Mondovì, mazzo 13, Clavesana.
correva al tempo del primo consegnamento de beni feudali fatto dalli ill.mi marchesi di Clavesana cioè sig. Niccolò per la metà del feudo et il sig. Massimiliano per il quarto et li ill.mi sig. Henrico e Bongiovanni per l’altro quasrto tutti essi signori di Saluzzo); idem del 1628, copia di un catasto non rilevato del 1622 (AC Clavesana, Matricola tributi [1628]); libro dei trasporti del 1679 (AC Clavesana, Comunità di Clavesana. Catasto, libro dei
1685 non rilevato.
all’Ottocento a partire dal 7 gennaio 1614 (AC Clavesana, Ordinati).
Clavesana, Propalazioni della comunità di Clavesana [1597]).
l’accatastamento della masseria del Toma), 1616, 1626, 1629 (per vertenze sul pagamento dei carichi). Lite tra Clavesana e Farigliano per il possesso del gorreto della Prà, in contenzioso per il mutamento d’alveo del Tanaro (1695-1712). Liti contro particolari di Mondovì per pagamento carichi (1602 e 1618)
Conterno G., Dogliani. Una terra e la sua storia, Dogliani 1986. Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino 1990. Manno A., Promis V., Bibliografia storica degli Stati della Monarchia di Savoia, Torino 1898.
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Morozzo della Rocca E., Le storie dell’antica città del monteregale ora Mondovì in Piemonte, Mondovì 1894. Pio G.B., Cronistoria dei Comuni dell’antico mandamento di Bossolasco con cenni sulle
Vadda G., Monografia di Carrù con cenni storici sui comuni del mandamento, Dogliani 1902. Viotto R., Farigliano e la Langa del Tanaro, Torino 1960.
La vita della comunità di Clavesana, almeno fino a tutto il Cinquecento, appare come pesantemente condizionata nella gestione dei beni comunitari e nella riscossione dei carichi legati ai terreni – ossia nella difesa dei suoi diritti – da due fattori: l’essere sede diretta di una importante casata marchionale (i Saluzzo-Dogliani); il particolare assetto proprietario dei terreni del suo finaggio, che vede una notevole presenza di beni feudali in mano ai marchesi o alla nobiltà collegata. A questo riguardo, si noti come tale presenza, oltre ad essere consistente – si pensi che a fine Cinquecento i marchesi possedevano 10 massarie di natura feudale antica e altre quattro immuni da carichi per un totale di 793 giornate piemontesi antiche (AC Clavesana, Atti della Comunità e uomini di Clavesana contro il sig. Bongiovanni Saluzzo signore di detto luogo; idem contro il sig. Ciro di Saluzzo signore di detto luogo [14 agosto 1596]) – risulta anche essere relativamente costante nel tempo: solo nel 1783 furono assoggettate ai carichi, e dunque ridotte da feudali ad allodiali, più di 400 giornate rimaste fino a quel momento a regime feudale (con Regia Patente del 21 marzo 1783). Una presenza così ingombrante dei signori del luogo influisce pesantemente sulla gestione dei beni comunitativi, che nonostante tutto rimangono fino a tutto il Cinquecento considerevoli: a più riprese i marchesi di Clavesana ostacolano la gestione da parte della comunità, impediscono il recupero di beni usurpati e a volte si fanno essi stessi protagonisti di usurpazioni. Uno dei segni dell’ostilità verso la comunità emerge dalla documentazione cinquecentesca: la distruzione dei documenti sui beni comunitativi, di cui i contemporanei avvertono tutta l’irreparabile gravità. In effetti, ancora nelle liti settecentesche, Clavesana è spesso nella posizione più debole proprio per la mancanza di documentazione probatoria del possesso comunitativo. Insomma: la vicenda di Clavesana sotto il profilo della gestione dei beni comunitativi e dei rapporti con il potere feudale è radicalmente opposta a quella, ad esempio, di Carrù, che fronteggia Clavesana dell’altra parte del Tanaro. Là una comunità forte che custodisce con cura le sue carte e i suoi beni, ed una feudalità non particolarmente invadente oltre, ovviamente, ad un assetto politico sovralocale diverso; qui una sede di dinastia marchionale ingombrante e prepotente, in cui i marchesi o i rami di nobiltà a loro collegati possiedono grandi estensioni di beni a volte a danno stesso della comunità; una comunità combattiva ma radicalmente e costantemente debole e sconfitta. Due tipi di beni occupano la storia comunale di Clavesana: i beni antichi, protagonisti delle vicende tardocinquecentesche di usurpazione e di lotta contro i signori, estesi e di un certo rilievo economico, ma per lo più irrecuperati; i beni rimasti comuni fino al Settecento. Si tratta, per questi ultimi, quasi esclusivamente di ghiaioni o prati lungo il corso capriccioso del Tanaro, ed oggetto di liti proprio per i mutamenti che il fiume causa nelle sue esondazioni. Sono beni di gestione difficoltosa: in parte residui dei beni antichi, in maggior parte frutto di mutamenti d’alveo del Tanaro. Tale difficoltà gestionale si somma ad una sorta di scarso interesse da parte della comunità a difendere i suoi beni comuni, probabilmente anche per effetto dell’assenza di documentazione a riguardo, a sua volta – come si è visto – ascrivibile alla particolare storia
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dei rapporti tra la comunità e i marchesi del luogo. Infine tale difficoltà di gestione, sommata a queste carenze – che potremmo chiamare di tipo politico – della comunità condiziona in particolare i rapporti con la comunità di Farigliano, il cui confine corre in parte lungo il letto del Tanaro, ponendo Clavesana in una posizione costantemente sfavorevole nel caso di vertenze. Per quanto riguarda l’ingerenza diretta o indiretta dei marchesi nell’amministrazione dei diritti della comunità, questa ci viene svelata retrospettivamente da un lite e da due “inchieste” della comunità relative ad un periodo di tempo ristretto, tra il 1596 e il 1604. Non dev’essere casuale che tale periodo coincida con la fine della reggenza del marchesato da parte dei diretti discendenti per linee maschili del ramo Saluzzo-Dogliani, e l’inizio di un lungo periodo di frammentazione e forse di incertezza giurisdizionale. Attorno al 1597 dovette morire Corrado, l’ultimo discendente maschio del marchese Antonio di Saluzzo, cui nel 1382 era stata concessa in feudo Clavesana dal conte Amedeo di Savoia (AST, Corte, Paesi per A e B, m. 62, n. 10, c. 1: Il Conte Annibale Caramelli implora un annuo trattenimento in compenso della privazione di parte del feudo di Clavesana posseduto dai suoi antenati [29 febbraio 1831]). Con la morte di Corrado il feudo venne diviso tra le sue sei sorelle, con possibilità di trasmissione da parte di ciascuna sorella ai propri discendenti, aprendo così, da un lato, una lunga vertenza circa l’effettiva possibilità di trasmissione del feudo per linee femminili, dall’altro, quella situazione di frammentazione feudale di cui si parlava in precedenza. Inoltre, le procedure di una successione di natura così complessa – la divisione in sei dei beni e delle giurisdizioni – dovettero comportare certamente una fase di rilievo e rielencazione territoriale, dunque la riapertura delle mappe, magari la loro verifica, e la comunità dovette avere perciò l’occasione di riaprire contenziosi e rivendicare antichi diritti magari de facto usurpati dai vecchi signori. L’impressione che deriva dalla lettura delle inchieste a cavallo tra Cinque e Seicento è che alla morte dell’ultimo discendente della casata si disgreghi inevitabilmente un potere saldo e forse invadente nei confronti dei diritti della comunità, e in questo alleggerirsi e frammentarsi del potere signorile la comunità cerchi effettivamente di incunearsi per rivendicare quanto perso. Negli anni attorno alla data presunta della morte di Corrado (il 1596 o 1597) sorge la prima di molte liti tra i signori e la comunità (AC Clavesana: Atti della Co-
masseria (la masseria del Toma, di 116 giornate) che quest’ultima rivendica come bene di natura allodiale e non feudale, e dunque soggetta ai carichi di registro; soprattutto, il 1597 è l’anno della prima delle due Propalazioni (AC Clavesana, Propalazioni della comunità di Clavesana [1597]), seguita a poca distanza di anni da una seconda, nel 1604 (AC Clavesana, Propalazione Mag.ca Comunità di Clavesana vicario gen.le e delegato), sorta di inchieste che coinvolgono tutta la comunità e che sembrano avere una funzione ben più estesa della sempli- ce risoluzione delle vertenze per cui ufficialmente vengono intraprese; una funzione essenzialmente di ricognizione di quanto è sopravvissuto al passato dominio della signoria dei marchesi, più immediatamente per quanto concerne gli usi civici, e in seconda battuta, ciò che costituisce il principio stesso dell’autorità del comune, ossia la documentazione dei patti con i signori e gli statuti stessi. Dalla lite del Toma ci giunge una prima indicazione retrospettiva sui rapporti tra comunità e signori nel periodo precedente la morte di Corrado: la prima sentenza, che arriva soltanto nel 1612, ingiunge a Bongiovanni di Saluzzo il pagamento di carichi e taglie arretrate dovute alla comunità, dal momento che effettivamente i signori avevano da sempre omesso di pagare i carichi di registro catastale della masseria, pretendendo per essa una feudalità inesistente e sottraendo così una importante fonte di entrate alla comunità. Pur riconoscendo
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la non feudalità della masseria, il figlio di Bongiovanni, Ciro di Saluzzo, rifiuta il pagamento. In seguito, dopo altra lite con la comunità, in virtù di una nuova legge sulla feudalità dei beni allodiali tenuti per consuetudine dai nobili, il 1 aprile 1626 una sentenza ducale libera definitivamente i Saluzzo dall’obbligo del pagamento. Oltre alla lite con i signori, nel 1597 sorge una contesa di natura assai più complessa riguardo un appezzamento di terreno posto nel Fossato di Garino, sul confine con Farigliano, chiamato le Rive di Giordano, per una vicenda legata allo spostamento di una strada nei pressi dell’antichissima Cappella di Garino, ad opera di due contadini di Clavesana. La parrocchia di Clavesana si sente usurpata dalla comunità in quello che crede un suo possedimento; nella vicenda – non è chiaro secondo quali meccanismi – si inseriscono anche i signori del luogo, per certi loro diritti. La comunità vorrebbe forse intentare una lite, come sta facendo per la massaria del Toma, ma si accorge probabilmente di non avere assolutamente alcun documento che attesti la proprietà della zona, né altro atto che regoli i rapporti tra i signori e la comunità riguardo tasse, beni comuni, diritti reciproci. Probabilmente sono molti i casi di usurpazione di beni comuni da parte dei signori o da particolari, che la comunità vorrebbe venissero alla luce, e molti i casi di violazione di patti comunità-marchesi. La situazione alla morte di Corrado, però, è ambivalente. Da un lato v’è la possibilità, finalmente, di rivendicare i diritti e cercare di vederli riconosciuti nei nuovi consegnamenti feudali e nei patti con il signore; dall’altro, v’è una vera e propria desolazione documentaria, accompagnata dalla presenza di consuetudini non codificate, sia di sfruttamento di beni comuni che della loro pacifica usurpazione. La comunità non intenta liti su luoghi e circostanze precise, perché non dispone di documentazione; non solo: non conosce neanche con precisione le circostanze, ossia non sa bene dove siano i propri beni comunitari, e quali siano. Ricorre dunque ad un «rotolo monitorio», una sorta di pubblica richiesta di informazioni affisse da due agenti della comunità alla porta della chiesa parrocchiale. Si chiede la testimonianza di chiunque abbia informazioni sulla proprietà delle Rive di Giordano, ma non solo; anche sulla sorte degli atti della comunità e sulla presenza nel finaggio di Clavesana di beni ad uso comunitario, sotto pena si sanzioni ecclesiastiche. In parte per timore delle sanzioni, ma soprattutto per un evidente gusto della delazione contro i marchesi, le testimonianze fioccano. Si chiarisce di colpo il panorama dei rapporti tra i Saluzzo e la comunità, rimasto in una situazione di stallo da chissà quanto tempo; si denunciano usurpazioni di usi consuetudinari, e si precisano finalmente il nome e la dislocazione dei beni comunitari a partire dall’attestazione di consuetudini tramandate. La quantità dei beni comuni che risultano dalle testimonianze e dall’intrico di vicende in cui la comunità sembra avere avuto quasi sempre la peggio, inducono i sindaci di Clavesana, alcuni anni dopo, a pubblicare un secondo «rotolo monitorio», questa volta chiedendo più in specifico informazioni sulle usurpazioni di beni comuni (1604). Ecco cosa risulta dalle due Propalazioni. I documenti, che riguardano i beni comunitari, i rapporti fiscali tra comunità e signori, gli stessi statuti di Clavesana contenenti i patti con i marchesi, esistono; molti Clavesanesi li hanno visti con i propri occhi o ne hanno sentito parlare da parenti o genitori. Alcuni giurano sotto pena delle censure ecclesiastiche di avere visto, convocati nel castello, Corrado di Saluzzo in persona leggere da pergamene i patti con la comunità, e documenti che riconoscevano il possesso comunitario proprio delle Ripe di Giordano; altri affermano di sapere dell’esistenza di documenti che contengono l’impegno scritto del signore di permettere la raccolta comune della legna dai suoi boschi in Pian Mezzano. Alcuni raccontano di avere udito da una delle sorelle di Corrado che le scritture della comunità stavano in una stanza del castello riposte in un certo «buffetto» di cui solo il marchese possedeva la chiave. Un contadino in particolare riferisce un episodio vissuto in
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prima persona: alcuni anni prima, trovandosi nel cortile del castello, aveva visto il marchese in una stanza del castello accatastare un grande numero di «bergamine» e di libri contabili, che riguardavano la comunità, ed appiccarvi il fuoco, e per il gran fumo doversi calare dalla finestra direttamente nel cortile, per non restare soffocato. Che siano vere o false, queste testimonianze ci indicano comunque alcuni fatti: che gli statuti, e i documenti regolanti i rapporti signori-comunità, tanto ricercati dagli organi amministrativi del comune, non sono disponibili; che non corre buon sangue tra gli abitanti del finaggio di Clavesana e i loro marchesi, se, scomparso l’ultimo erede maschio legittimo, non temono di farsi delatori anche di accuse così gravi; che uno dei motivi di tale odio pare l’arroganza con cui i signori hanno in passato considerato i diritti della comunità, simboleggiata dal gesto della bruciatura delle pergamene. Evidentemente il comportamento dei marchesi fino a Corrado si è contraddistinto nell’ostacolare la funzione di controllo sugli usi civici da parte della comunità, se non addirittura nel manipolare, nascondere e distruggere documenti comunitari a difesa dei propri interessi. Nel primo Catasto reperito di Clavesana, risalente a circa cinquant’anni prima, i beni comunitari non erano registrati (AC Clavesana, Catasto che correva al tempo del primo consegnamento de’ beni feudali fatto dalli Ill.mi marchesi di Clavesana cioè sig. Niccolò per la metà del feudo et il sig. Massimiliano per il quarto et li Ill.mi sig. Henrico e Bongiovanni per l’altro quarto tutti essi signori di Saluzzo [1564]), ma non significa che questi non esistessero: ora i contadini testimoniano di prati in cui fino a pochi anni prima era permesso raccogliere legna ma non falciare il fieno, e si diceva che fossero beni comunitari: le Ripe di Giordano, le Ripe del Fin Sangue, le Coste Sopra il Toma, il prato detto In Cima le Giere, ed altro ancora. Innanzitutto il principio del contendere, ossia le Ripe di Giordano lungo il confine con Farigliano stando alle testimonianze appartengono alla gente di Clavesana da almeno settant’anni, dunque da circa il 1539, ossia da quando è possibile averne memoria diretta o tramandata. Franceschino Ballauri di Clavesana giura che sono del comune, e che infatti la gente ci va a fare legna, e vanno dal canapale di Ghiglione fino al Tanaro, e in cima soltanto i boschi sono tra i beni della cappella di Garino. Varie altre pezze di terreno appartengono alla comunità, ma sono state usurpate da particolari: nella regione delle Moglie, ad esempio, ove c’è un temine di questo comune, la strada comunitaria è tenuta da un certo Chiechi; in regione Sant’Antonio una donna coltiva più di un trabucco di un campo comunitario; lo stesso in regione Colle. Più grave ancora, e denunciato con particolare malizia, il caso delle usurpazioni ad opera dei signori del luogo. Le Ripe del Fin Sangue, prima di tutto, situate lungo il Tanaro, e quelle di Garino, che un contadino afferma essere della comunità fin dai ricordi di suo nonno, e che poi tale Giacomo Benedetto, massaro della masseria feudale di Garino, ha cominciato a coltivarle come cosa propria, senza pagare carichi: pare situazione simile a quella della masseria del Toma, per cui la comunità era in lite ufficiale con i signori. Una testimonianza, anzi, pare riguardare proprio il terreno della masseria del Toma: Enrietto Ellena dichiara di avere sempre sentito dire da suo padre e da altri che il gerbido sopra la via di Toma fino alle fini di Carrù era della comunità, e che la gente vi andava a pascolare bestie come cosa comune senza contribuzione alcuna, e il gerbo non era falciato da nessuno in quanto cosa comune; ma che da quando venne come massaro della masseria di Toma – di proprietà di Massimiliano di Saluzzo – un certo Pietro Formento, costui cominciò ad occuparsi del gerbo, a coltivarlo, a falciarlo e a vietare il pascolo delle bestie. Allo stesso modo in regione Coste Sopra il Toma, coerenti le fini di Carrù, un prato comunitario detto In Cima le Giere è stato usurpato dal sig. Massimiliano di Saluzzo e da Seconda di Saluzzo attraverso i loro massari. In questo caso un contadino, fronteggiando un massaro, aveva minacciato – invano, perché non le aveva – di portare qui gli statuti della comunità per dimostrare la comunanza del prato. Ancora: il gorreto
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del Caudano della comunità è stato occupato dal signore di Clavesana; Giovanni Battista Oberti addirittura confessa di avere posseduto un pezzo di terra in regione Crilletta, allibrata a catasto come bene della comunità, anche se ha sempre pagato le taglie dovute, e che ora lo stesso appezzamento è tenuto dagli eredi del fu Bongiovanni di Saluzzo. Infine, una vicenda curiosa: il gerbo davanti al molino di Clavesana era del marchese che lo aveva lasciato alla comunità in un suo testamento per il libero pascolo; da circa vent’anni, questo bene avuto – una volta tanto – in regalo dai signori, è stato usurpato dal particolare Paolo Ballauri, che attualmente lo coltiva come cosa propria. Da questo momento di luce, in cui finalmente si può e si cerca di sapere quanto più possibile sui beni della comunità e sulle usurpazioni di questi, non deriva però una fase di riappropriazione da parte della comunità di Clavesana dei suoi antichi diritti. Si consideri ad esempio il caso della massaria del Toma: la comunità intenta lite solamente per il mancato pagamento dei carichi, anche se forse era già allora palese l’usurpazione operata dal massaro Pietro Formento del gerbido sulla via del Toma, e nemmeno dopo la pubblicazione delle Propalazioni la questione viene mai affrontata con una nuova lite; ugualmente nessuna lite è registrata né con i nobili né con i particolari le cui usurpazioni sono testimoniate nelle Propalazioni. Una spiegazione di questa apparente rinuncia della comunità a difendere legalmente i propri diritti può trovarsi in una considerazione: la lite del Toma, riguardante una irregolarità macroscopica da parte dei marchesi, si conclude ugualmente con una vittoria di questi; a maggior ragione avrebbe avuto ancora minori possibilità di vittoria una lite intentata sull’usurpazione del gerbido del Toma il cui possesso da parte della comunità non era nemmeno documentato e avrebbe dovuto venire difeso in base a testimonianze di contadini e ricordi tramandati dai padri o dai nonni. Il primo catasto rilevato dopo la morte di Corrado di Saluzzo sancisce in modo inequivocabile il fatto che le Propalazioni non sono state altro che un episodio puramente conoscitivo su di una situazione nei confronti della quale gli organismi comunitari non avevano potere di intervento (AC Clavesana, f. 217: Matricola tributi [1628], copia di un catasto del 1622). Infatti i beni comunitari, questa volta registrati in apposita colonna, risultano essere 38 giornate divise in 36 appezzamenti di terreno, di cui però due soltanto sono esplicitamente definiti come beni comunitari «in affitto perpetuo a particolari», ossia secondo un contratto di enfiteusi, per un totale di circa sette giornate di terreno; il resto delle pezze sono tutte indicate a margine come accatastate a particolari di cui è citato il nome e talvolta la data dell’acquisto; nella colonna di registro corrispondente ogni pezza è infatti rintracciabile, ma senza più alcuna indicazione che la distingua da un qualunque bene catastale. Dunque quasi tutte le pezze della comunità, nel 1628, tranne due affittate perpetuamente a particolari, erano già ormai “usurpate” o vendute a particolari, senza traccia del vigore di diritti consuetudinari comunitari, al punto che la colonna dei beni della comunità appare come un semplice “pro-forma” privo di utilità pratica. La comunità riscuoteva le tasse da costoro senza reclamare i diritti civici sui terreni. Addirittura un successivo catasto del 1679 (AC Clavesana, Comunità di Clavesana, Catasto, Libro dei trasporti) registra come beni della comunità soltanto le già incontrate Ripe di Giordano, oggetto delle Propalazioni, come «in affitto perpetuo a Giovanni Bulino»; quello del 1692 non ha nemmeno più una colonna di beni comunali (AC Clavesana, Libro dei
Eppure la storia dei beni comunitari di Clavesana non si estingue come potrebbe sembrare: come in un fenomeno carsico le tracce di beni antichi o di nuovo acquisto affiorano periodicamente, tanto che nelle misurazioni di inizio Settecento è di nuovo possibile seguire le vicende di beni della comunità di Clavesana, anche se la loro storia è radicalmente diversa da quella dei beni Cinquecenteschi. Schede storico-territoriali dei comuni del Piemonte Comune di Clavesana Cesare Morandini 1996
Dalle indagini svolte dai funzionari sabaudi della Perequazione nel 1721 (AST, Camera dei Conti, II Archiviazione, art. 21, m. 90, f. 21: Perequazione del Piemonte, Mondovì, consegna beni immuni e comuni) emerge una situazione dal doppio volto. Da un lato, la comunità possiede una discreta quantità di beni comuni, secondo le relazioni richieste direttamente ai sindaci del luogo; dall’altro, confrontando i dati ricevuti dai sindaci con quelli relativi a precedenti consegnamenti (la Misura Generale del 1709 e il consegnamento del 1715) emerge come in verità, viste le forti discrepanze rilevate tra i dati, la comunità non sia pienamente consapevole dell’estensione e della collocazione dei beni in suo possesso. Nella Misura Generale i beni comuni ammontavano a 83:76 giornate, tra vigne, campi, boschi, prati e gerbidi, più 30:64 di terreni controversi. Questi comprendevano le 23 giornate contese con Farigliano in regione Prata-Naviante, di cui ci occuperemo in seguito, e i beni per 12:7 giornate pretesi dal marchese del luogo Asinari sempre in regione Prata (AST, Camera dei Conti, II Archiviazione, art. 21, m. 78, f. 47). Nei Consegnamenti del 1715 i beni comuni ammontavano però soltanto più a 17 giornate, «un tempo affittate, ma ora di niun reddito per l’inondazione del Tanaro», e diventati «giarone nude». Nelle più recenti registrazioni della Perequazione i beni sono invece 97:23 giornate. I funzionari della Perequazione giustificano la discrepanza dei dati attuali con quelli del 1715 con la generazione avvenuta nel frattempo di «roche nude» dovuto alle piene del Tanaro, che dunque, abbandonate dai particolari, sono finite tra i beni comuni. Forse i funzionari della Perequazione avevano dato una tale spiegazione per un meccanismo di assimilazione. Tra gli altri, avevano raccolto dalle relazioni dei sindaci anche i dati su certe pezze, ammontanti a 13:43 giornate, che la comunità registrava separatamente dal computo dei beni comuni, perché protagoniste di una vicenda particolare: erano state prima accatastate a particolari e poi da questi abbandonati, per i capricci del Tanaro; registrati nel catasto del 1687 come beni comuni, restavano sempre, in realtà, di natura allodiale. Il motivo dell’incertezza, o meglio, della mutevolezza del panorama dei beni comuni all’inizio del Settecento non pare dunque essere una ragione politica interna alla comunità, come forse era stato in passato, al tempo delle Propalazioni; piuttosto nella estrema precarietà dell’esistenza fisica delle pezze di terreno dovuta alla grande forza di mutazione del paesaggio propria del fiume Tanaro; quella grande forza di mutazione che, nei tre momenti di rilevazione dei beni comuni del 1709, 1715 e 1721, ha fatto registrare dati altalenanti con grandi variazioni tra di essi.
La variabilità dei dati sui beni comuni, e le ipotesi di spiegazione di tale variabilità data dai sindaci di Clavesana e dai funzionari della Perequazione ci permette senza troppe difficoltà di sapere di che tipo fossero, per lo più, i beni comunitari di Clavesana nel primo ventennio del Settecento: non più ripe, pascoli, prati coltivabili come dalle Propalazioni della fine del Cinquecento, ma ghiaioni di fondovalle, nei casi migliori gorreti di sterpaglie o arbusti. Beni dunque di scarso valore, e come abbiamo visto, soggetti ai mutamenti alluvionali; inoltre, probabilmente beni per lo più giunti nelle mani del comune per abbandono di particolari, e non dunque beni antichi, ultimi brandelli delle grandi proprietà di uso civico medievali. Gli unici beni antichi nel 1721 sono quelli della regione del Piano, attorno al Tanaro; della regione delle Gere, stretti dal fiume da tre lati; i beni della Prata contemporaneamente contesi da Farigliano e dal marchese del luogo. Come si può vedere, sono tutti appezzamenti di fondovalle, dello stesso tipo dei beni non antichi e giunti al comune per abbandono dei proprietari. Probabilmente la loro sopravvivenza tra i beni comunali è dovuta proprio a tale loro natura, insieme di sterilità e di precarietà; fatti oggetto di scarso interesse, sono passati indenni attraverso la fase – che abbiamo visto essere in atto a fine Cinquecento – dell’erosione attraverso usurpazioni di varia natura del patrimonio di beni comunitari di Clavesana.
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Le uniche due vertenze con altre comunità riguardanti porzioni di territorio contese sono quelle a proposito del gorreto della Prata, situate entrambe negli anni a cavallo tra Seicento e Settecento, concernenti appezzamenti considerati dalla comunità di Clavesana, dai registri della Perequazione del 1721, come «bene comune antico», e coinvolgenti la prima, il marchese di Clavesana e la comunità di Farigliano, la seconda direttamente le due comunità confinanti. Lo stesso esame delle molte regioni indicate nei documenti cinquecenteschi, anche se solo sporadicamente individuate sulla mappa attuale, dà l’impressione che nel periodo delle già citate Propalazioni, che oltretutto corrisponde al periodo delle prime attestazioni di documenti comunitari, i confini del territorio di Clavesana fossero già tracciati in maniera solida e non controversa, e sostanzialmente secondo l’assetto odierno, fatta eccezione per le aree interessate dal fondovalle del Tanaro. Proprio tali aree furono l’oggetto delle due liti settecentesche: precisamente la regione Naviante, oggi racchiusa in un ansa del Tanaro nel territorio di Farigliano. Alla fine del Seicento fu interessata da frequenti sconvolgimenti da parte del fiume, che prima ne ridusse l’estensione, poi la trasformò in un isola e successivamente in penisola. Fino al 1674 era stata di proprietà di Farigliano, in parte accatastata, in parte sede di terreni comuni, i gorreti della Prata e di Finazza. La regione non compare invece nell’unico elenco catastale dei beni comuni di Clavesana, quello del 1628 (AC Clavesana, Matricola tributi [1628]), né viene mai citato dai testimoni delle Propalazioni di fine Cinquecento come bene della comunità, usurpato o no che sia. Nel 1674 dunque il Tanaro cambiò corso e tagliò via dalla regione, portandolo sulla sponda opposta, il gorreto della Prata. Clavesana non ne rivendicò il possesso, anche se sarebbe stato sufficiente impuntarsi in sede di lite sulla volontà di considerare il letto del Tanaro come confine tra le due comunità, una sorta quindi di confine “mobile” in balia delle esondazioni. Farigliano dunque continuò nell’esercizio dei suoi usi civici – raccolta legna e frutti – ben pronto a difendere invece il confine tracciato dai termini indipendentemente dai capricci del fiume: se il Tanaro aveva cambiato corso, il confine restava nel vecchio alveo ormai asciutto. Il marchese di Clavesana invece, che dunque appare ben più solerte degli organismi comunitari nel cercare di convertire gli sconvolgimenti fluviali a suo vantaggio, e che si era ritrovato nel 1674 ad essere contermine con un bene d’uso civico di Farigliano, iniziò presto ad ostacolare il suo godimento. Farigliano intentò lite contro di lui allorquando questi si rifiutò di acconsentire alla ricostruzione di una chiusa sul fiume che toccava entrambe le sponde. I Fariglianesi avevano il diritto di poggiarsi alla sponda di Clavesana da antichi patti cinquecenteschi; a maggior ragione ne avevano diritto ora – a loro dire – che il Tanaro non divideva più le due comunità ma la frazione fariglianese di Naviante e il gorreto della Prata, di uso civico fariglianese. Il marchese però intendeva considerare il gorreto oramai come sua proprietà. Nel 1685 il Tanaro cambiò ancora il suo alveo, e cinse Naviante con un braccio secondario, trasformando la frazione di Farigliano in un’isola, ma probabilmente riavvicinando questa al gorreto della Prata. La lite proseguì ugualmente per le questioni della chiusa, in apparenza senza che il marchese rivendicasse più il gorreto della Prata, ed ancora nel 1697, al termine della documentazione, risulta ancora aperta (AC Farigliano, fald. 165, fasc. 20 bis: Atti civili contro il marchese di Clavesana per la chiusura della bealera di Aviant e per i gorreti di Finazzo e Prà [1674]). Proprio in virtù del mutamento d’alveo del 1685, però, fu la comunità di Clavesana a sostituirsi al marchese nel rivendicare suoi diritti di uso civico sul gorreto. A quell’apoca Farigliano lo affittava con pubblico incanto come bene comune in usofrutto a particolari (AC Clavesana, Atti civili d’accusa della magg. Comunità di Clavesana di Giovanni Andrea
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lite iniziò il 7 agosto 1695, quando Andrea Bernardino Piasenza e Bernardino Piasenza fu Secondino, particolari di Farigliano già da anni coaffittavoli del gorreto appartenente ai beni comunitari della comunità di Farigliano, denunciarono che un particolare di Clavesana, Andrea Ferrero, nel luglio precedente, aveva tagliato e portato via una grande quantità di legna dal gorreto, in fascine; per giustificare la denuncia rimandavano ai bandi campestri della comunità di Farigliano che regolamentavano lo statuto legale dei beni comunali all’incanto. La comunità di Clavesana, con ordinato del 18 agosto 1695, decise di assumere la difesa del Ferrero, in quanto venne contestata la proprietà del gorreto a Farigliano, e rivendicato come proprio da antico e consuetudinario diritto. Riconobbe che però la situazione orografica era cambiata, in quanto alcuni anni prima – probabilmente la stessa alluvione del 1685 che trasformò provvisoriamente Naviante in un’isola – il gorreto facente parte dei beni comunitari di Clavesana e dunque destinato alla legna comune era stato eroso dal Tanaro durante una esondazione, ed era stato trasformato anch’esso in un’isola del fiume; da quel momento la comunità di Farigliano aveva preso a considerarlo bene suo, ossia come una naturale estensione della sua frazione di Naviante, posta sulla sponda opposta del Tanaro, e come tale lo aveva affittato a particolari; secondo Clavesana rimaneva però – e come tale era registrato, secondo le parole dei procuratori della comunità – come bene corroso infruttifero della comunità di Clavesana. La versione di Clavesana appare, alla luce della precedente lite con il marchese, appare incongruente e pretestuosa: Farigliano aveva probabilmente sfruttato il gorreto da sempre, anche quando, nel 1674, questo era stato tagliato via dal nuovo corso del Tanaro dalla frazione di Naviante. La lite rimane a lungo indecisa, anche se in principio sembra risolversi a favore dei particolari di Farigliano, che chiedono a più riprese il rispetto di una sentenza che obbliga Clavesana al pagamento dei danni per il taglio della legna richiesti dai contadini di Farigliano e delle spese legali. Probabilmente, come appare verosimile vista la scarsità e l’incertezza dei documenti catastali precedenti di Clavesana, tale comunità non aveva potuto presentare testimonianze o documentazione convincenti. La vertenza si concluse però solamente nel 1712, ossia diciassette anni dopo, con una sostanziale parità tra le parti: la regione venne assegnata a Clavesana, ma soltanto dietro il pagamento di una forte somma di denaro a titolo di risarcimento per Farigliano. Probabilmente, a sbloccare la situazione della lite era intervenuta una nuova esondazione del Tanaro, che aveva ancora più marcatamente diviso il gorreto dalla frazione Naviante di Farigliano, generando forse la definitiva situazione che dura tuttora. Nello svolgimento delle due liti, Farigliano appare in una posizione di maggiore forza: non tanto maggiore forza contrattuale di tipo politico nei confronti del marchese di Clavesana o della comunità di quel luogo, ma una forza interna derivante dalla maggiore importanza che pare riservare al mantenimento, all’interno della comunità stessa, dei diritti legati ai beni comuni rispetto a Clavesana. Infatti, se da un lato per Farigliano il gorreto, all’indomani del primo mutamento d’alveo del fiume, aveva fin da subito costituito un oggetto gestito in chiarezza di atti pubblici, messo all’incanto a particolari che conoscevano i diritti, sanciti dai bandi campestri, legati ad esso in quanto bene comunitario, da parte di Clavesana lo stesso gorreto, ugualmente rivendicato come bene comunitario non pare essere stato fatto oggetto di simile attenzione. La lite infatti da parte di Clavesana non scatta al momento in cui, dopo gli stravolgimenti geografici dovuti alla piena del Tanaro, Farigliano affittava all’incanto l’appezzamento a suoi particolari come suo bene comunitario, dando l’occasione ad essa di accampare diritti su un territorio che forse, visto il nuovo assetto del letto del fiume, poteva spettargli in base alla concezione del confine lungo il corso del Tanaro. Addirittura, invece, Clavesana è trascinata nella lite dalla difesa di un suo particolare contro cui era scattata una denuncia da parte degli affittuari di Farigliano. Al momento della lite, il gorreto divenuto un’isola dopo l’erosione, di un qualche interesse agricolo, visto che Farigliano lo aveva
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registrato a catasto, messo all’incanto e affittato a particolari ben intenzionati a sfruttarlo, era stato da Clavesana semplicemente registrato come bene comune infruttifero corroso, e la comunità non aveva mostrato nessuna intenzione immediata di rivendicarlo concretamente. La sentenza arbitramentale del 1712 non è però ancora risolutiva della questione. Nel 1748 la comunità di Clavesana mette all’incanto alcune pezze di terreno, tra cui la ghiaia della Prata ormai assegnata ad essa (50 giornate) (AC Clavesana, Atti di incanti, deliberazioni, et instrumento di vendita di tenimento di beni della Comunità di Clavesana a favor del sig. Giuseppe Durandi con fede di nuova misura, et ordinato di d.ta Com.tà per ricorrer con attestati uniti [1748]). Il consiglio della comunità approva la vendita dopo avere accertato che rimangano alla comunità sufficienti riserve per il pascolo comune. Dopo il terzo incanto però il marchese di Clavesana, l’arciprete don Giovanni Benedicti, parroco di Clavesana e il sindaco di Farigliano, intimano la nullità della vendita e la sospensione dell’incanto. I primi due perché in seguito alle recenti alluvioni (ancora il Tanaro sconvolge i confini e le misure), se la comunità procedesse alla vendita, risulterebbero danneggiati nel loro possesso, avendo il Tanaro rosicchiato la pezza del comune, che resta però teoricamente – ossia per gli atti dell’incanto – delle vecchie dimensioni; il secondo per un motivo più complesso, e legato alla vertenza ormai cinquantennale tra i due comuni confinanti: la lite per il possesso del ghiaione della Prata si era conclusa con una sentenza arbitramentale del 29 aprile 1712, come abbiamo visto; questa obbligava Clavesana a pagare una somma di denaro per potersi mantenere nel possesso del ghiaione, ma siccome la comunità non aveva ancora pagato, la pezza era ancora da considerarsi contesa. Dopo una sospensione durata un anno, eluse in qualche modo le obiezioni dei tre, la vendita viene fatta al sig. Giuseppe Durando per lire 7000. Ma ancora non v’è pace per la pezza della Prata. Da subito sorgono diatribe sulla misurazione, in quanto il Tanaro nelle sue piene rosicchia regolarmente alcune tavole della Ghiaia. La vendita al Durando è del 1749, sulla base di un pagamento dilazionato nel tempo; dieci anni dopo però Durando intenta una nuova causa, perché in realtà dalle misurazioni di dieci anni prima, l’appezzamento risulta ormai di estensione minore, ed asserisce che le spese da lui fatte per difendere il campicello, che dà pochissimi frutti, dall’erosione del Tanaro già superano abbondantemente le lire 7000 pattuite nella vendita. Download 164.21 Kb. Do'stlaringiz bilan baham: |
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