A. A. 2013-2014 sp 2014 Prof ord. Uberto motta storia letteraria moderna: La letteratura dell’Italia Unita (1861-1968) martedí 17-19h, mis 3026


Mario Luzi, Patio, da Avvento notturno, 1940


Download 445 b.
bet10/10
Sana05.07.2017
Hajmi445 b.
#10513
1   2   3   4   5   6   7   8   9   10

Mario Luzi, Patio, da Avvento notturno, 1940

Forse è un’ombra del cuore l’orrore che disarma

e raggela sui vetri lo stupore

delle grida chimeriche negli atri.

Arrossano le mele sulle fioche erbe di Parma

e il tuo sguardo in altrui sguardi succede.

Il colore dei cedri sul marmo ti precede.

Ma il vento soffermato sulle oscure lanterne,

sul tuo viso riflesso nei miraggi

vitrei delle città dimenticate!

Si fondono irraggiate dalle bianche lucerne

della sera le tue immagini strane

mentre uguagli nitente le mutevoli diane.

Nulla più che un chiarore s’avvicina agli spalti,

alle corna spettrali dei palazzi,

il vuoto s’avvicenda nelle cave

specchiere, nella febbre viola dei basalti.

La tua forma nell’aria si ripete

lungo un prisma ammaliato e una pallida rete.

E. Montale, da Le occasioni, II ed. 1940

Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose; hai le penne lacerate dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso; e l’altre ombre che scantonano nel vicolo non sanno che sei qui.

V. Sereni, Saba, in Gli strumenti umani, 1965

Berretto pipa bastone, gli spenti oggetti di un ricordo. Ma io li vidi animati indosso a uno ramingo in un'Italia di macerie e polvere. Sempre di sè parlava ma come lui nessuno ho conosciuto che di sè parlando e ad altri vita chiedendo nel parlare altrettanta e tanta più ne desse a chi stava ad ascoltarlo. E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile lo vidi errare da una piazza all'altra dall'uno all'altro caffè di Milano inseguito dalla radio. "Porca - vociferando - porca". Lo guardava stupefatta la gente. Lo diceva all'Italia. Di schianto, come a una donna che ignara o no a morte ci ha ferito.

La narrativa: anni ’40 e ’50

  • 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (n. 1908)

  • 1945, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (n. 1902)

  • 1947, Artemisia di Anna Banti (n. 1895), Cronache di poveri amanti di V. Pratolini (n. 1913) e Il sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino (n. 1923)

  • 1952, I ventitre giorni della città di Alba di B. Fenoglio (n. 1922)

  • 1953, Novelle dal ducato in fiamme di C.E. Gadda (n. 1893)

  • 1954, Racconti romani di Alberto Moravia (n. 1907)

  • 1955, Ragazzi di vita di P.P. Pasolini (n. 1922)

  • 1957, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E. Gadda

  • 1958, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (n. 1896)



La cultura italiana ed europea: ’40 e ’50

  • 1923, Istituto per la ricerca sociale dell’Università di Francoforte (1947, Dialettica dell’illuminismo di Adorno-Horkeimer)

  • 1945, «Les temps modernes» di J.P. Sartre e S. de Beauvoir

  • 1945, «Il Politecnico» di E. Vittorini

Cinematografia:

1945, Rossellini Roma città aperta

1948, De Sica Ladri di biciclette

1948, Visconti La terra trema

[1941, M. Alicata e G. De Sanctis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema»]

1948, Lettera a «Rinascita» a firma di numerosi artisti

1950, ed. it. dei Saggi sul realismo di György Lukàcs (1948)

Lettera a «Rinascita» (1948), a firma di R. Guttuso, G. Turcato, Mario Mafai e altri artisti

Noi sappiamo bene che dobbiamo liberarci delle posizioni intellettualistiche di un’arte senza contenuto, di un’arte sfiduciata e solitaria, staccata dai problemi del mondo e della realtà in movimento, obiettivamente al servizio della classe dominante. […] La lotta dunque contro l’arte contemporanea formalistica (e soprattutto contro quelle ideologie di decomposizione, di assenza e di sfiducia che hanno presieduto e presiedono quell’arte) va condotta a fondo. È una lotta quindi contro quelle forme fini a se stesse di negazione della realtà come materialmente esistente fuori di noi, di negazione dell’uomo come protagonista della storia, di negazione di quei contenuti che rispecchiano le aspirazioni e le speranze di tutta l’umanità.

György Lukàcs, Saggi sul realismo, ed. it. 1950, Introduzione

La categoria centrale, il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo, ossia quella particolare sintesi che, tanto nel campo dei caratteri che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l’individuale. Il tipo diventa tipo […] per il fatto che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti, umanamente e socialmente essenziali, d’un periodo storico.

La narrativa: anni ’40 e ’50

  • 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (n. 1908)

  • 1945, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (n. 1902)

  • 1947, Artemisia di Anna Banti (n. 1895), Cronache di poveri amanti di V. Pratolini (n. 1913) e Il sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino (n. 1923)

  • 1952, I ventitre giorni della città di Alba di B. Fenoglio (n. 1922)

  • 1953, Novelle dal ducato in fiamme di C.E. Gadda (n. 1893)

  • 1954, Racconti romani di Alberto Moravia (n. 1907)

  • 1955, Ragazzi di vita di P.P. Pasolini (n. 1922)

  • 1957, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E. Gadda

  • 1958, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (n. 1896)



I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947: Prefazione alla II ed. 1964 (1)

Questo romanzo è il primo che ho scritto […]. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. […] Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. […] La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. […] La carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse in quel momento sapevamo ed eravamo. […] Il «neorealismo» per noi che cominciammo di lì, fu quello. […] Il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo.

 

I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947: Prefazione alla II ed. 1964 (2)

Il «neorealismo» non fu una scuola (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d'essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio

E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, cap. 1

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire e vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.

Raccontare la magia di un mondo primitivo: Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli



Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura. […]

Quando, nei primi giorni, mi capitava d’incontrare sul sentiero, fuori del paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi, e mi chiedeva: ― Chi sei? Addò vades? (Chi sei? Dove vai?) ― Passeggio, ― rispondevo, ― sono un confinato. ― Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). ― Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male ―. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.

Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.

La Firenze popolana del dopoguerra: Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, 1947



V. Pratolini, Cronache di poveri amanti

Via del Corno è finalmente tutta per i gatti che banchettano a un cumulo più grosso d’immondizia: dai Bellini, al secondo piano del n. 3, c’è stato pranzo nuziale. Milena s’è sposata con il figlio del pizzicagnolo di via dei Neri. Milena ha diciotto anni, è bionda, con gli occhi chiari di colomba: via del Corno ha perduto il secondo dei suoi Angeli Custodi. Dopo il viaggio di nozze Milena andrà ad abitare in un appartamentino delle Cure.

Le sveglie sono fatte per suonare. Ce ne sono cinque in via del Corno che suonano nello spazio di un’ora. La più mattiniera è quella di Osvaldo. È la sveglia di un rappresentante di commercio “che batte la provincia”: è piccola, di precisione, ha un trillo di giovinetta e anticipa di un quarto d’ora il fragore della sveglia di casa Cecchi che ha il suono della campanella di un tranvai, ma è quello che ci vuole per rimuovere uno spazzino dal suo sonno di tartaruga.

La sveglia di Ugo è della stessa razza urlante: il contrario del suo proprietario che gira tutto il giorno col barroccino di frutta e verdura ed ha una voce di baritono nell’offrire la mercanzia. Ugo occupa una stanza in subaffitto, al n. 2 terzo piano, ed è per questo che la sveglia dei coniugi Carresi non si fa mai sentire. Maria si desta quasi sempre “quando esplode il macinino del suo dozzinante”, allunga una mano per portare sul silence la chiavetta della propria sveglia. Così, Beppino che le dorme accanto, non si desterà. Le proibirebbe di lasciare il letto finché Ugo non fosse uscito.

Anna Banti nel 1934



A. Banti, Artemisia, 1947



La resistenza e l’etica langarola I ventitre giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio (1952)



B. Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba: dal racconto Il trucco

Moro cercò René e lo vide sul margine dell'aia, ap­partato con due che parevano i più importanti dopo di lui. S'avvicinò: i tre dovevano aver discusso fino a quel momento sul posto della fucilazione.

Uno finiva di dire: - ...ma io avrei preferito a Sant'Adriano.

René rispondeva: - Ce n'è già quattro e questo fa­rebbe cinque. Invece è meglio che siano sparpagliati. Va bene il rittano sotto il Caffa. Cerchiamo li un pez­zo di terra selvaggio che sia senza padrone.

Moro entrò nel gruppo e disse: - C'è bisogno di far degli studi così per un posto? Tanto è tutta terra, e buttarci un morto è come buttare una pietra nell'ac­qua.

René disse: - Non parli bene, Moro. Tu sei col Ca­pitano e si può dire che non sei mai fermo in nessun posto e così non hai obblighi con la gente. Ma noi qui ci abbiamo le radici e dobbiamo tener conto della gen­te. Credi che faccia piacere a uno sapere che c'è un repubblicano sotterrato nella sua campagna e che que­sto scherzo gliel'han fatto i partigiani del suo paese?

Raccontare Roma: Racconti romani di A. Moravia (1954) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C.E. Gadda (1957) Ragazzi di vita di P.P Pasolini (1955)



Alberto Moravia, Racconti romani: Mario

Fu così. Di mattina presto, mi alzai che Filomena ancora dormiva, presi la borsa dei ferri, uscii di soppiatto di casa e andai a Monte Parioli, in via Granisci, dove c'era uno scaldabagno che buttava. Quanto tempo ci avrò messo per fare la riparazione? Certo un paio d'ore perché dovetti smontare e rimontare il tubo. Finito il lavoro, con l'autobus e con il tram tornai a via dei Coronari, dove ho casa e bottega. Notate il tempo: due ore a Monte Parioli, mezz'ora per andarci, mezz'ora per tornare: tre ore in tutto. Che sono tre ore? molto e poco, dico io, secondo i casi. Io ci avevo messo tre ore per rimettere a posto un tubo di piombo; qualcun altro, invece... Ma andiamo per ordine. Alla imboccatura di via dei Coronari, mentre camminavo svelto lungo i muri, mi sentii chiamare per nome. Mi voltai: era Fede, la vecchia affittacamere che sta di casa di fronte a noi. Questa Fede, poveretta, ha due gambe cosi grosse, per via della podagra, che manco un elefante. Mi disse, tutta affannosa: - Che scirocco, oggi... vai in su? mi dai una mano per la sporta? Risposi che l'avrei fatto volentieri. Mi passai la borsa dei ferri sull'altra spalla e afferrai la sporta. Lei prese a camminarmi accanto, trascinando quelle due colonne di gambe sotto la palandrana. Dopo un poco, domandò: - E Filomena dov'è? Risposi: - Dov'ha da essere? A casa. - Già, a casa - disse lei a testa china - si capisce. Domandai, tanto per parlare: - Perché si capisce? E lei: - Si capisce... eh, povero figlio mio. Insospettito, lasciai passare un momento e poi insistetti: - Perché povero figlio mio? - Perché mi fai compassione - disse quella befana senza guardarmi. - E cioè? - E cioè non sono più i tempi di una volta... le donne oggi non sono più come al tempo mio.

P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, 1955, cap. IV

Amerigo stava disteso sul letto col vestito blu nuovo, la camicia bianca e le scarpe nere. Gli avevano incrociato le braccia sul petto, anzi sul doppiopetto di cui da un par di domeniche era tanto orgoglioso, andandosene per Pietralata con la camminata cattiva. I soldi se l’era procurati facendo una rapina in via dei Prati Fiscali: aveva scucito al micco una trentina di mila lire, e per levarsi una soddisfazione lo aveva pestato a sangue: e così s’era fatto il vestito blu, e andava in giro con quello con un umore più da bestia del solito. C’era da far bene attenzione a come lo si guardava, e gli amici suoi della borgata, vigliacchi e falsi con lui, sapevano ungerlo senza mostrarlo troppo, ma altri giovani che non lo conoscevano, incontrati nelle sale da ballo del Partito Comunista, o a qualche biliardo, erano tornati a casa con l’occhi gonfi e le gengive sanguinanti: e fortuna per loro che Amerigo era stato diffidato a andare in giro col coltello. Era un vestito coi calzoni a tubo, la giacca corta con le spalle larghe e rotonde: teneva il colletto della camicia bianca sbottonato e i capelli pettinati alla ghigo. Adesso lì, s’era lasciato mettere pazientemente, come una vittima, le mani in croce sul doppiopetto: ma il colletto gli stava ancora sbottonato alla malandrina incorniciandogli il volto che era stato da morto anche quand’era vivo. Tanto che pareva si fosse appena addormito, e faceva ancora paura. Finita la pennichella, quello avrebbe certamente finito di pazientare e avrebbe spaccato il grugno a quelli che s’erano permessi di conciarlo a quel modo. Se ne stava lì cupo e zitto, sul letto ch’era troppo piccolo per lui, con un cesto di capelli ricci, ancora luccicanti di brillantina sul guanciale grigiastro.

C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957, cap. X



Raccontare la Sicilia: Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (1958)



G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo



Download 445 b.

Do'stlaringiz bilan baham:
1   2   3   4   5   6   7   8   9   10




Ma'lumotlar bazasi mualliflik huquqi bilan himoyalangan ©fayllar.org 2024
ma'muriyatiga murojaat qiling