Aa 2012-2013 sp 2013 Prof. Uberto motta corso monografico di letteratura moderna Le Odi e IL Giorno di Parini


G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (III)


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Sana29.09.2017
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G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (III)

Poeta. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un'eredità assume con essa il carico de' debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure?

Nobile. No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.

Poeta. E perché ciò?

Nobile. Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.

Poeta. Per qual ragione?

Nobile. Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.

Poeta. Volpone! voi vorreste adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse.

Nobile. Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il capo.

G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (I)

Non siete voi letterato? Non siete voi cittadino? Non siete voi cristiano? Non siete voi Religioso? […] Le scienze vi debbon pure avere insegnato che tanto vale l’uno quanto l’altr’uomo: gli obblighi del cittadino debbono avervi ammaestrato a non far veruna distinzione tra i vostri compatriotti, quando questi, ciascuno per la sua via, tendono alla comune felicità: la carità del cristiano a portare e mostrare anche nelle menome cose amore indistintamente ed universalmente a tutti quanti i prossimi vostri: e l’osservanza religiosa, per fine, a perfezionare in voi tutte queste virtù, che debbono esser proprie del letterato, del cittadino e del cristiano. Ecco le riprensioni che vi si potrebbero fare, se voi vi burlaste delle povere femminelle milanesi contra i doveri del cittadino, e contra il precetto il qual dice:   Merita pena colui che chiama il suo fratello pazzo o carogna [cfr. Mt 5,22: “chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna”].

G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (II)

Ma via, sia pur vero che voi abbiate biasimato solamente il linguaggio della plebe nostra, come andate dicendo nel secondo Dialogo. Tenete però voi in così piccolo conto questa lingua, che meriti d’esser chiamata, anche in presenza di chi la parla, lingua d’oca, lingua sgraziata, goffa, fetente, unta, lercia, scipita, disadatta? Questo linguaggio anzi della plebe, che voi nel secondo Dialogo volete aver solo biasimato, questo anzi è il vero e più puro linguaggio milanese, e quello per conseguenza che meno dovrebbe meritarsi le vostre derisioni.

Le lingue, come voi medesimo a me potete insegnare, sono tutte indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o beltà loro. Le voci, onde ciascuna è composta, sono state somministrate agli uomini dalla necessità di spiegare e comunicarsi vicendevolmente i pensieri dello animo loro; e la Natura, a misura che negli uomini sono cresciute le idee, ha dato loro segni da poterle esprimere al di fuori: onde nasce che ciascuna lingua è abbastanza perfetta, qualora non manchino ad essa quelle voci che si richieggono a potere spiegare ciascuna idea di colui che la parla.

G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (III)

Noi Milanesi siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e per la schiettezza dello animo; e per quella nuda ed amorevole cordialità che è il più soave legame della società umana. […] Questa medesima schiettezza e semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua milanese a coloro de’ nostri che posti sonosi ad esaminarne la natura. E, o sia che realmente i Milanesi non abbiano giammai appreso a favellare dall’arte, e non abbiano vocaboli o maniere di dire proprie a deludere altrui, siccome quelli che non ne hanno i pensieri; o sia che gli osservatori del nostro dialetto abbian creduto di vedere in esso ciò ch’eglino stessi desideravano; certa cosa è che la nostra lingua è sembrata loro spezialmente inchinata ad esprimer le cose tali e quali sono, senza aver grande bisogno in qualunque argomento di sostenerla con tropi e traslati ed altre maniere artifiziose del dire, che nate sono, o dalla mancanza dell’espressioni proprie e naturali. o dall’arte di sorprendere il cuore ferendo l’immaginazione.

 

Due discorsi ai Trasformati

  • 1761, Discorso sopra la poesia, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 49-68

  • 1762, Discorso sopra la carità, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 100-121



G. Parini, Discorso sopra la poesia (1761)

Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò, dee prima esser tócco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista. Non a torto si dice che il poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevute? La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nella eleganza dell'espressione, nell'armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno.


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